Capriccio Veneziano

Sergio Saccomandi

Il fascino e l’incantata luminosità di Venezia rappresentano il senso profondo dell’attuale ricerca di Sergio Saccomandi e di quel voler «scoprire» il valore dello spazio che, di volta in volta, accoglie metafisici oggetti, frammenti di storiche architetture, misteriose figure di un magico Carnevale.
Per questo appuntamento con campi e campielli, con gondole e ponti sul Canal Grande, con facciate di palazzi segnate dal tempo e il Teatro «La Fenice», l’artista ha delineato un percorso del tutto particolare dove ha ribaltato l’interpretazione del cielo e delle acque della laguna. Nelle sue tele, infatti, le acque diventano cielo e viceversa, la raffigurazione appare, quindi, del tutto ribaltata e reinventata secondo una visione che da sempre contraddistingue il linguaggio di Saccomandi.
Del resto la sua indagine espressiva scava in profondità nella realtà per far scaturire la vera ed insostituibile dimensione di una umanità legata all’evoluzione della società, di una creatività che unisce la sua meditata gestualità alle immagini evocative di una «Venezia intesa come metafora dell’uomo». In ogni caso, Saccomandi non ha voluto raccontare o ritrarre compiutamente la Serenissima, ma come sul palco di un teatro recitare un penetrante monologo, proporre brandelli di incontri in surreali e onirici interni di settecentesche abitazioni, scandire nell’atmosfera i volumi architettonici della Basilica di San Marco in una sorta di recupero di armoniche proporzioni che riflettono i momenti di una progettualità legata ai primitivi elementi romanico-bizantini per poi approdare a interventi gotici e cinquecenteschi, prima della ricostruzione, dopo un incendio, in forme bizantine.
La Venezia dipinta da Saccomandi va ben oltre a uno scontato e ripetitivo vedutismo, a pagine di maniera, a piacevoli riscontri figurali, per consegnare all’immaginazione opere che sono veri e proprie intuizioni che prendono spunto dall’amore dell’artista per il teatro, per allusivi scenari, per mantovane e palcoscenici, per il boccascena. Ed è proprio il boccascena l’elemento portante e determinante della sequenza delle composizioni, perché diventa inquadratura, cornice, stazione di un itinerario che si snoda, come in una serie di atti unici, da Ca’ Foscari alla casa di Casanova con i suoi misteriosi personaggi che si muovono in stanze rarefatte, silenziose, lontane dalla civiltà tecnologica e mediatica.
La parola è, in questo caso, segnale, gioco delle parti, emotività pulsante pur trattenuta all’interno della ragione e di una creativa riflessione. L’alternarsi semantico delle subitanee impressioni, delle luci polverizzate in acque ferme e cieli dorati, dell’accostarsi di poltrone e nudi di schiena e cupole di chiese, definiscono l’essenza di un dialogo altamente poetico: «Arrivò la notte/e tu eri ancora lì/sentivo il tuo profumo/sembravi dipinto».
Rimane indubitabile nella memoria la cadenza del colore mai sacrificato alla forma, la controllata «costruzione» della scena-immagine-natura e la strenua energia di una linea ferrea, che circoscrive un drappo o un gatto o una giovane donna mascherata. E nei «capricci veneziani» affiorano, come da lontane sedimentazioni del pensiero, le accensioni dei testi di Molière e Jonesco e Beckett, in una frequenza che si commisura con un simbolico uccello o le finestre sulla Laguna, come in un diario segreto e segretamente ripercorso con le annotazioni a margine, le chiavi di violino, i disegni di macchine che aprono il palcoscenico sui volti di un’esistenza reinventata prima del buio totale. E Venezia riappare.

Angelo Mistrangelo


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Credits: M. Valente (Archivio Sergio Saccomandi)