Fiori nella luce

Michele Baretta

A vent’anni dalla scomparsa, la figura e l’opera di Michele Baretta sono rievocate in questa retrospettiva che rinnova l’interesse intorno a uno dei suoi temi preferiti: i fiori.
Artista dalla linea disinvolta ed immediata, Baretta ha legato il proprio nome a un dipingere volitivo, ricco di colore, capace di conferire una determinante identità ai piacevoli nudi femminili, alle marine liguri, al fulgore cromatico della facciata di «San Marco» a Venezia, alle intense Crocifissioni risolte con una fluida resa del soggetto:«Questa fluidità – ha scritto Marziano Bernardi su “La Nuova Stampa” del 3 febbraio 1954 – forse gli deriva anche dalla frequente pratica dell’affresco, che gli suggerisce colori liquidi, trasparenti, condotti a velature leggerissime…Il suo contenuto pittorico è aperto, sereno, cordiale…».
E il colore costituisce l’essenza delle sue composizioni floreali, che raccontano il fascino indiscusso della luce sui petali, della scansione di un segno incisivo ed armonioso, della freschezza di una rappresentazione che travalica la realtà per esprimere l’amore per il vero in una trascrizione sulla tela o sul foglio di carta da disegno che si «manifesta nel fervore, nell’abbondanza, nella scioltezza del dipingere…nella continua disponibilità alle emozioni, ai sentimenti, alle meditazioni…» (Luciano Budigna).
Vi è, quindi, in Baretta la consapevolezza di una visone che “cattura” dei papaveri o delle rose bianche, delle sterlizie o degli iris, secondo una “scrittura” che gli appartiene indissolubilmente come un ricordo, un incontro, uno sguardo sulla realtà circostante. E da Fiori di pesco del 1949 a Gigli e ranuncoli degli anni Cinquanta, dai Fiori di campo del 1958 a Rose del 1985, si delinea il suo linguaggio, la volontà di fissare un dato cromatico o un vaso in un interno, una grande natura morta con frutta e fiori del 1944, una rosa che si allunga filiforme nello spazio o delle dalie recise, in una sorta di narrazione o di memoria o, ancora, di una persuasiva fedeltà al tema: in un continuo rinnovarsi dell’indagine intorno alla natura, in cui si avverte l’evolversi di uno «spettacolo di immagini e colori e che su tali scene s’illude di brevemente arrestare il proprio quotidiano, inesorabile, faticoso esistere». In questa interpretazione di Gian Giorgio Massara, si ravvisa l’intensità del dettato di Baretta e quella sua energia espressiva, mai sconfitta dalla più scontata consuetudine, ma tutto si completa con una istintiva gestualità che definisce entità formali dove «alla dolcezza si affianca il vigore, alla grazia la passione, ai cieli tersi quelli corruschi, temibili e tempestosi…» (Mario Marchiando Pacchiola, in «I quaderni» della Collezione Civica d’Arte, Palazzo Vittone, Pinerolo, 1988).
Una grafia che ritroviamo nella puntuale successione delle “tavole” con fiori, che stabiliscono un rapido rapporto con l’ambiente, con l’atmosfera, con la luce. E sono fiori venati di colori sfumati, di linee che creano profondità di spazi, di vibranti e limpidi accenti luminosi. Gigli, ranuncoli, girasoli, giunghiglie, rose, assumono il valore di una ben precisa testimonianza della personalità di Baretta, la forza di una guizzante grafia, la leggerezza di una nota musicale. Fiori gialli, bianchi, rossi, appaiono come le pagine di un diario intimo e intimamente segnato dalla maturata espressione dell’immagine che sia il mercato di Pinerolo, il carnevale a Vigone, un vaso di cristallo con i fiori di un’intera esistenza.

Angelo Mistrangelo


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Credits: S. Adduasio