Uomo e Testimone

Michele Baretta ed Ettore Serafino – Omaggio alla Resistenza

Michele Baretta ed Ettore Serafino sono state due figure di rilievo nel panorama pinerolese del dopoguerra, hanno costruito la loro profonda amicizia condividendo lo spirito patriottista e la passione per la pittura. Serafino è stato ufficiale degli Alpini durante la seconda guerra mondiale e poi comandante partigiano, Baretta è richiamato nel 1939 dopo il servizio militare entrando a far parte della Divisione Granatieri di Sardegna fino al 1943. Dopo la Liberazione, Serafino ha ripreso la professione di avvocato a Pinerolo e a Torino, impegnandosi nelle attività di associazionismo e della Chiesa Valdese, Baretta ha iniziato concretamente l’attività affiancando all’affresco sacro la pittura da cavalletto. Proprio quest’ultimo diventa negli anni il pretesto per ritrovarsi, viaggiare e coltivare la loro amicizia. 

Nel febbraio 1965 Serafino si reca nello studio di Vigone dell’amico pittore. Da questo incontro nasce l’idea di un’opera dedicata alla Resistenza, “Il monumento a Kesserling”, donato alla Città di Cuneo il 25 aprile 1965 nel ventesimo anniversario della liberazione.
Il quadro è ispirato al discorso pronunciato da Pietro Calamandrei in risposta al generale Kesserling, ma tutta la storia ve la lasciamo raccontare direttamente dalle parole di Ettore Serafino.

Bozzetto de “Il monumento a Kesserling”, Michele Baretta, 1965, tecnica mista, cm 100×70 – Collezione privata.

Uomo e Testimone
Ettore Serafino
Tratto del Quaderno n.19 della Collezione Civica d’Arte di Pinerolo

“Un giorno, se ben ricordo, del febbraio 1965, m’ero recato a Vigone, dall’amico Michele, per trascorrere un’ora nel suo studio, a parlar di quadri, di pittura, di località ove sarebbe stato bello recarsi con tavolozza e pennelli, dove da qualche anno talora avevo avuto la fortuna di potermi con lui accompagnare.
Dalla parete in vetrocemento pioveva una luce lattiginosa, filtrata dalla nebbia che s’era distesa sulla campagna e sul paese, e vi gravava immobile. Attorno a noi, il pittoresco colorato disordine ch’è dello studio d’ogni pittore, e, appesi alle pareti, o appoggiati in terra contro il muro, quadri e quadri; e se ne parlava, e li si considerava e se ne discuteva, e così, nel discorso interrotto sol dalle alzate del bicchier di vino ospitalmente offerto e sempre ricolmo, paesaggi, figure, oggetti, fiori si animava come cose vive: se ne rallegrava gli occhi, ma ancor più lo spirito.
Mi venne, in quell’incontro, di introdurre nel discorso un argomento che invero da qualche tempo volevo prospettargli: una “proposta” di lavoro.
1945-1965: si avvicinava con il mese di Aprile, la ventesima ricorrenza annuale della liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista, con la fine della guerra, che entrambi avevamo vissuto, ed il ritorno della nostra Patria alla pace e alla libertà.
Perché, gli chiesi (pur sapendo che dovevo vincere la sua naturale modestia, qualità che era in lui come in tutti gli uomini che avrebbero, per le loro capacità, motivo di non indulgervi, mentre difetta in chi, più che della modestia, dovrebbe sentire il richiamo del pudore…), perché non traduci su tela, sulla tavola, il messaggio di dolore e di speranza, il canto di morte sì ma anche di resurrezione, che viene da quel periodo che ha così profondamente segnato la vita del nostro paese e del nostro popolo?
S’era allora abbastanza “vicini” a quel tempo, per avvertirne ancora il richiamo, la suggestione, e far rivivere nel ricordo tanti volti amati di congiunti, di amici e compagni scomparsi, e raccogliere e tramandare la testimonianza: chi con la penna, chi col colore e i pennelli, chi con lo scalpello, tutti con l’impegno morale di vita al quale ci sentivamo, responsabilmente, legati.
Avevo presente, in quel momento, un quadro dipinto, penso qualche mese prima, da Michele, che è ora nella nostra Pinacoteca cittadina di Palazzo Vittone: un padre, un montanaro, che scende lungo un sassoso sentiero, e sulle braccia regge il corpo abbandonato, senza vita, del figlio giovinetto, uno dei tanti ragazzi partigiani caduti nell’impari lotta contro il tedesco invasore e i suoi complici. V’è di tutto in quel quadro: il dolore che par tutto schiantare, la fierezza, la dignità che sorregge il cammino tragico del padre, il gesto dell’offerta suprema, l’offerta del figlio agli altri, perché capiscano che quella vita spenta è il dono immenso che vien dato perch’essi vivano e sien liberi.

“Figlio della Resistenza”, Michele Baretta, 1965, olio su masonite, cm 50×70 – Collezione Civica d’Arte Pinerolo

Il nostro dialogo si sviluppò sempre più serio, in Michele il timore (che, conoscendo le sue doti e il suo animo, sapevo ingiustificato) ad affrontare un tema di così profondo impegno, in me l’ostinazione a non lasciar cadere la possibilità, che andava prendendo corpo, che lui, attraverso la sua arte, ci desse un visivo messaggio di quel tempo per il nostro tempo. Decidemmo di rivederci, di riparlarne.

Rientrai a Pinerolo, forando coi fari dell’auto la nebbia fitta, lentamente, e s’agitavano dinanzi a me ricordi, e dentro di me sentivo voci e richiami…uno squarcio di luce, a lacerar l’ovattata coltre…Ecco, ci fu chi scrisse parole di fuoco e di sangue, e perentorio comandamento di “resistere”, oggi e domani, come ieri, erigendosi contro il mostro e tiranno: Pietro Calamandrei, che, quando il nazista generale Kesserling, a guerra finita, ardì dir che gli Italiani avrebbero dovuto, per riconoscenza, erigergli un monumento, così gli rispose: “Lo avrai / camerata Kesserling / il monumento che pretendi da noi italiani / ma con che pietra si costruirà / a deciderlo tocca a noi / non coi sassi affumicati / dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio / non colla terra dei cimiteri / dove i nostri compagni giovinetti / riposano in serenità / non colla neve inviolata delle montagne / che per due inverni ti sfidarono / non colla primavera di queste valli / che ti vide fuggire / ma soltanto col silenzio dei torturati / più duro d’ogni macigno / soltanto con la roccia di questo patto / giurato fa gli uomini liberi / che volontari si adunarono / per la dignità non per odio / decisi a riscattare / la vergogna e il terrore del mondo / su queste strade se vorrai tornare / ai nostri posti ci ritroverai / morti e vivi collo stesso impegno / popolo serrato intorno al monumento / che si chiama / ora e sempre / Resistenza”.

Questo è il messaggio che Michele deve e può ripetere con la sua mano vigorosa, ad accompagnar pennelli e stender colori e tracciar contorni ai disegni, dissi a me stesso.
Ritornai da lui il giorno dopo, e compresi, subito, che quelle parole lo avevano toccato, lo avrebbero condotto a dare tutto sé stesso per scriverle, altrettanto forti, nel suo linguaggio, di pittore. Molte sere, da allora passammo insieme: a sentire i dischi con incise le lettere dei condannati a morte della Resistenza, altri coi canti or dolenti or ricchi di musicale speranza dei partigiani, dei maquisards, a guardar le fotografie terribili dei campi di concentramento e di sterminio, degli impiccati, dei torturati, degli affamati. E l’opera ch’egli avrebbe poi materialmente creato prendeva corpo, e immagine, e dimensione nella mente e nell’animo nostro.
Così, anche con qualche notte insonne (com’ebbe a confidarmi) nacque la seconda “risposta” a Kesserling. Il grido di Calamandrei s’era perennemente inchiodato sulla grande pietra della lapide murata nel municipio di Cuneo; là, dove era giusto che trovasse il suo posto il grande quadro nel quale Michele Baretta, racconta l’eco di quel grido, l’aveva ripetuto trasformandone i suoni, le vibrazioni, le voci, traducendoli negli occhi abbruciati dei martiri, nel rossastro bagliore delle fiamme, nell’uscir vittorioso, da quel muro di sofferenti, degli uomini vivi in cammino nella luce della ormai riconquistata libertà. Così il quadro fu, il 25 Aprile del 1965, solennemente consegnato alla Città di Cuneo”.

“Il monumento a Kesserling”, 1965, Michele Baretta – Città di Cuneo