Una ventina di oli e numerose chine acquerellate rievocano in questa retrospettiva la figura e l’opera di Mario Faraoni a vent’anni dalla sua scomparsa, rinnovando l’interesse intorno alle sue tematiche preferite.
Quando morì aveva 75 anni: quasi una decina gli aveva dedicati agli studi che in gioventù dovette però abbandonare per fare il garzone di bottega del patrigno Rotelli, con le mani d’artista a scalpellare il marmo statuario, per affinare la tecnica guardando ora a Bazzaro (Milano) ora a Bistolfi (Torino).
Poi la vocazione per il disegno, per la pittura. La sua biografia ufficiale può partire dal 1995: a quella data egli si trova con Baretta alla “Scaletta” di Bologna, poi esordisce a Cremona, con una personale, nella città che lo vede nascere il 16 luglio 1914. É anche l’anno di una fortunata presenza in Liguria con Quaglino, Menzio, Deabate, Colli: i critici Carluccio, Marziano Bernardi e Dragone annotano espressioni lusinghiere sulla sua arte. Con Valinotti, Da Milano, Deabate, Garino Bertinaria, Baretta è ancora a Cremona nel 1956 con la possibilità di esternare il suo pensiero nella presentazione della mostra. Cosa rappresentano questi pittori? Chi sono? Sono “uomini che operano anzitutto in nome di una morale contraria a quella vigente: il successo e il guadagno ad ogni costo. “Pittori – dice Faraoni – che operano in direzione opposta al proprio vantaggio personale e materiale, rifiutando la greppia a cui attingono strombazzatissimi se pur men validi nomi. Essi, non conoscendo alcun compromesso, attaccano sempre direttamente la malafede, l’incapacità mascherata…”.
La citazione, permette di entrare nella coscienza dell’uomo e dell’artista che percorre la sua strada con pochi amici veri, qualche volta con delusioni inevitabili, ma sempre con una interiore capacità critica del valore di trasmissione del suo linguaggio. Un uomo che sapeva anche commuoversi, soprattutto davanti all’arte e alla natura. Raul, il figlio, mi confida che lo vide intenerirsi davanti alla luce degli affreschi aretini di Piero della Francesca, di fronte al colore a all’umanità dei santi di Masaccio al Carmine fiorentino. Ma ammirava Magnasco, i vedutisti, la forza di Goya. Era interessato ai disegni sanguinei di Holbein e poi Kokoschka, Daumier, Soutine. Apprezzava Mirò per la poetica, ma riteneva quella pittura talvolta la ripetizione di un giochetto. “Prese ad apprezzare Magritte dopo che vide un suo notturno – dice ancora il figlio – anche se entrava poco nel suo pensiero“.
Negli ultimi cinque anni di malattia ha condiviso molto la compagnia di Raul: appassionato entrambi di ricerca micologica, le passeggiate in mezzo ai boschi del Talucco erano diventate consuetudini amicali per conversazioni, impressioni sulla maturità, sull’uomo. Aveva un rispetto smisurato per la creazione. C’è da pensare che il suo intimo religioso fosse fondato su questo valore, più che sui ritmi liturgici di una chiesa gerarchica. Eppure un suo acquerello, dedicato a quell’uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni, che ha dato agli uomini tanta speranza in questo nostro secolo, è di raccolta ed intensa spiritualità. Le sue convinzioni erano molto vicine ai valori evangelici e francescani. Amava certe ore del giorno, non la luce cruda, ma la luce soffusa (quella che poi traduceva sulla tela), non certamente i bagliori e i cieli tersissimi. É la luce di un meditativo. Al tramonto si ritirava come per mettersi al riparo da quel mistero della notte che sarebbe venuto tra poco a circondarlo. “Persona estremamente sensibile, forse avvertiva messaggi che ad altri sfuggono…”. Il mistero di una vita, ma anche l’opera d’arte, quello che essa contiene, è misterioso, incommensurabile.
Mario Marchiando Pacchiola