Qui… Altrove

Carin Grudda

Un viaggio simbolico attraverso il linguaggio astratto-figurativo di tele ad olio di grande formato e di tavole bruciate dove fiabeschi soggetti vestono i panni di una realtà scandita per allegorie. Non mancano le grandi incisioni a puntasecca e le sculture in bronzo, dove i personaggi prendono forma in un fantastico cammino in divenire, paragonabile alla natura del viaggio: ci si lascia dietro un luogo, senza ancora essere giunti in un altro.

L’artista tende a esercitare le proprie peculiarità creative attraverso trasformazioni che talora riguardano la materia stessa del fare. Succede in particolare a quei pittori che hanno visto crescere a tal misura tra le mani e nei pensieri i loro personaggi da non poterli più contenere nei limiti di un quadro, per quanto grande possa essere. Sopravviene allora un desiderio di tridimensionalità ovvero si rende necessario un nuovo spazio in cui far respirare la nuova esigenza. Nel secolo passato è successo a importanti maestri come Pablo Picasso e Joan Mirò che hanno risolto nell’assemblaggio di oggetti trovati e nella loro eventuale fusione nel bronzo un simile impulso espansivo. Carin Grudda sta seguendo da qualche tempo il medesimo processo evolutivo da applicare a una favolistica e avvincente narrazione.
Il suo modo di affrontare l’immagine e di inserirla in un ambito non convenzionale colloca il suo comportamento nella perenne attesa di un’illuminazione che può provenire da un frammento di legno recuperato da un’altra vita e da un altro uso. Ricordano certe esternazioni selvagge dell’ “art brut” praticata, perennemente inseguita e propugnata da Jean Dubuffet e rammentano altresì le folgorazioni offerte dalla primissima infanzia dove ogni segno è un racconto e dove l’insieme dei segni è il mondo che conserva e centellina tutte le stupefazioni che solo i bambini di quella magica età sono in grado di recepire compiutamente. Carin, seguendo la strada tracciata per l’appunto da Dubuffet, da Miró e da certe figurazioni d’ambito Cobra, di derivazione espressionista e tribale, rinnova l’incanto di un immaginario guidato e seguito dalla tecnica e da un’armonia compositiva capace di coniugare il gesto alla conseguente (o anticipatrice) meraviglia. Con lei un mondo ritorna dai recessi di ogni singola età dell’innocenza e di ogni primitiva esaltazione e ci soggiace nel rinnovare antiche pulsioni emozionali. Con la Grudda si compie sempre un ideale percorso labirintico che ci conduce alla medesima fonte ispiratrice: guarda caso è proprio la fonte da cui noi stessi, più o meno inconsapevolmente, abbiamo attinto quella capacità di meravigliarci appresa nei primi anni di innocente consapevolezza esistenziale quando la realtà circostante era una fantastica scoperta da cogliere passo dopo passo, sguardo dopo sguardo. E che abbiamo smarrito nel momento stesso in cui ci siamo illusi di conoscere questo mondo manipolandolo quindi a nostro uso e consumo. Con lei il dono ci ritorna intatto, nella sua impagabile freschezza dichiarativa, in una speculare innocenza da non vanificare con un errato approccio contemplativo dedicato solo all’apparenza, alla semplice piacevolezza concessa dall’immagine.
Nella magica sostanza delle cose, nel rapporto stesso tra racconto e forma, risiede la chiave del nostro recupero esistenziale: può ridursi a una folgore passeggera, ma tanto basta per attivare il nostro ritorno alle origini che possieda i seducenti contorni di una festa degli occhi e dello spirito.
Grazie alle creazioni di Carin Grudda tutto questo avviene con naturale, straordinaria, inaspettata immediatezza. E per lei, e di riflesso per noi, la magia continua.

Luciano Caprile


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